Corte Ue: il contenimento della spesa pubblica non può mai vanificare il diritto alle ferie

Nei giorni scorsi ha destato molto scalpore la notizia della decisione della Corte di Giustizia UE che ha stabilito che le ferie annuali retribuite sono un diritto fondamentale del lavoratore del settore pubblico e non possono essere negate o limitate in caso di cessazione del rapporto di lavoro, anche in caso di dimissioni. Si tratta della sentenza del 18 gennaio 2024 della prima sezione della Corte sulla causa C- 218/22, sollevata dal tribunale di Lecce in merito ad una vertenza di un dipendente comunale che aveva visto rigettare la richiesta di pagamento delle ferie non godute all’atto delle dimissioni. Le reazioni entusiastiche alla decisione sono comprensibili ma forse necessitano di qualche precisazione per ciò che
concerne il personale delle aziende sanitarie. Da parte sua l’ANAAO ha ricordato che fin dal 2021 aveva segnalato che i dirigenti sanitari si sono trovati un credito di oltre 5 milioni di giornate di ferie accumulate negli anni e non godute e ha, di conseguenza, calcolato che i dirigenti stessi hanno maturato in media 40
giorni di ferie non fruite, per un valore di circa 4 miliardi di euro. I legali dell’associazione Consulcesi – richiamando proprio l’ultimo rapporto di ANAAO – ha fatto sapere, sulla base delle ultime sentenze della Corte europea, tra cui l’ultima che comprende i dimissionari volontari, che in caso di cessazione del
rapporto di lavoro lo Stato si troverebbe di fronte ad un potenziale esborso di oltre 600 milioni di euro, solo in ambito sanitario. Ora, tra 600 milioni e 4 miliardi la differenza non è da poco ma un fatto è incontrovertibile, a prescindere dalla attendibilità della quantificazione: le ferie sono un diritto inalienabile e vanno o fruite regolarmente o monetizzate, punto. Tra l’altro, nel caso della monetizzazione non si tratta di un credito di natura retributiva ma risarcitoria, con la conseguenza che la prescrizione del credito stesso
è decennale.
Francamente, però, lo scalpore di cui si diceva non sembra del tutto giustificato perché una giurisprudenza numerosa e costante ha sempre riconosciuto il diritto alla monetizzazione e, a ben vedere, quello che hanno affermato i Giudici europei la afferma da anni la Cassazione. Da ultimo, la Suprema Corte è arrivata
anche a riconoscere il diritto anche a chi le ferie in pratica le autogestisce, cioè i dirigenti apicali (Corte di Cassazione, sez. lavoro, ordinanza n. 18140 del 6.6.2022). E’ opportuno rammentare che le pronunce della CGUE hanno efficacia retroattiva e valore erga omnes perché ad esse si affida, più che una semplice
statuizione sul caso concreto, una interpretazione autentica del diritto dell’Unione.
Chi scrive è intervenuto più volte sulla tematica sia su questo sito che sulla piattaforma SMART lavoro pubblico del Sole 24 ore. Ma perché si è arrivati a questo punto di totale disallineamento tra disposizioni legislative e giurisprudenza ? Nasce tutto da una “criticità” che risale a più di 10 anni fa. Ovviamente quando mi riferisco alla criticità intendo la questione del divieto posto nel 2012 dalla legge sulla spending review, divieto che deve essere armonizzato con il principio costituzionale della irrinunciabilità delle ferie.
Tutti i contratti collettivi della Sanità hanno timidamente accennato alla tematica ma non hanno risolto nulla, anzi hanno creato ancor più confusione con quel riferimento che hanno fatto alle “disposizioni attuative”; ma in modo improprio perché i quattro documenti citati nei contratti non sono “circolari applicative” bensì meri pareri, peraltro ampiamente superati, e il secondo del MEF è una nota interna di condivisione dell’ultimo parere della Funzione pubblica; forse sarebbe stato più opportuno ricordare la pronuncia della Corte Costituzionale n. 95 del 6.5.2016 che ha precisato il perimetro entro il quale non è da ritenere incostituzionale la norma della legge 135/2012 che ha vietato la monetizzazione delle ferie, generando una spirale vorticosa tra il principio della irrinunciabilità delle ferie e il ricordato divieto di pagamento. La citata sentenza della Consulta aveva tentato di salvare la disposizione legislativa e la Cassazione ha sempre seguito le sue indicazioni. Adesso, con la sentenza di pochi giorni fa, anche gli ultimi dubbi sono svaniti e il principio è che le ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico non possono mai vanificare il diritto alle ferie. Il lavoratore ha il solo onere di provare di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro
per ragioni indipendenti dalla sua volontà. A quest’ultimo proposito, il datore di lavoro ha l’obbligo di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto. Ma il principio di cui sopra è solare fin dal 2012 e l’art. 5, comma 8, della legge 135/2012 violava le norme comunitarie ma in modo ancora più evidente l’art. 36 della Costituzione italiana.
Speriamo, in conclusione, che la vicenda insegni qualcosa al legislatore nel senso, in particolare, che le disposizioni di questa natura non le devono scrivere i ragionieri con il solo dichiarato scopo di “risparmiare”ma le devono studiare i legisti. Purtroppo, questa pessima abitudine non sembra proprio che abbia cessato di produrre i suoi effetti perversi, basterebbe ricordare le vicende del pagamento del TFR dei dipendenti pubblici o i recenti interventi sulle pensioni, tematiche sulle quali è più che sicuro che l’esito sarà analogo alla questione della monetizzazione delle ferie.

Massimo Tortorella – Consulcesi